Sono le dimensioni aziendali non la natura della proprietà, pubblica, privata o mista, a fare la differenza tra le utility idriche italiane più o meno performanti. E se gli indicatori stanno migliorando, grazie anche alla regolamentazione del settore avviata nel 2012, il ritardo e la frammentazione dell’Italia, rispetto al resto dell’Europa, sul fronte degli investimenti è eclatante: abbiamo 1.801 aziende di servizio idrico sparpagliate nel Paese, per l’80% servizi in economia degli enti locali, e dovremmo scendere a 70 entro il 2019, così come servirebbero 5 miliardi l’anno di investimenti (80-100 euro pro-capite ogni anno, secondo le migliori esperienze europee), ma siamo fermi nel 2015 a 1,5 miliardi. Eppure già oggi, semplicemente sfruttando la leva finanziaria, le imprese idriche hanno titolo per recuperare 2 miliardi di finanziamenti e rilanciare l’infrastrutturazione.
È quanto emerge dallo studio di CRIF Ratings e REF Ricerche sulle aziende italiane del servizio idrico, presentato a Bologna. L’analisi economico-finanziaria condotta sulle prime 100 aziende italiane del settore idrico, che servono il 55% della popolazione italiana, con una forza lavoro di 21.000 addetti e oltre 5 miliardi di euro di ricavi, conferma il costante progresso delle performance dal 2012 in avanti.
“Tutti gli indicatori di redditività, produttività e indebitamento presentano una chiara tendenza verso il miglioramento al crescere delle dimensioni aziendali e della patrimonializzazione, così come aumenta la capacità di realizzare investimenti e di onorare i finanziamenti – ha precisato Francesca Fraulo, managing director di CRIF Ratings –. Con performance superiori per le monoutility focalizzate solo sull’acqua (Ebitda al 30% contro il 19% delle multiutility)”. Ma a sorprendere è ciò che raccontano i bilanci in termini prospettici “Solo sfruttando meglio il potenziale inespresso di leva finanziaria, i primi cento operatori italiani potrebbero attivare 2 miliardi di euro addizionali di finanziamenti e permettere finalmente uno scatto agli investimenti in linea con il reale fabbisogno”, ha rimarcato Fraulo. Un cambio di rotta, dunque, si impone non solo all’interno del settore idrico, ma anche nel rapporto con il mondo finanziario.
“Il tipo di proprietà non incide sugli indici economici e finanziari, se non in termini di costo del lavoro (più alto nelle utility pubbliche) – ha aggiunto l’economista di REF Ricerche Samir Traini –. Mentre è evidente la superiore competitività dei gestori sopra i 20 milioni di patrimonio, sia in termini di Ebitda sia di valore degli asset idrici (il RAB, Regulatory Asset Based), con valori tre volte superiori alle piccole realtà. Così come emerge una cesura territoriale tra un Sud sotto-infrastrutturato e un Nord-Est più efficiente”.
Proprio l’istituto di ricerca REF ha dimostrato in studi recenti che gli investimenti nel settore idrico avrebbero un potente effetto moltiplicatore sull’economia nazionale. Se si riuscisse a recuperare il ritardo infrastrutturale (ogni cittadino italiano ha in mano 240 euro di patrimonio tra reti idriche, reti fognarie e impianti di depurazione, un inglese 1.400 euro) e quindi a mettere in moto i 5 miliardi di investimenti l’anno necessari, si aumenterebbe il PIL dello 0,7% ogni anno con la creazione di 182.000 nuovi posti di lavoro stabili.