Intervista ad Adolfo Spaziani, Direttore Generale di Federutility
Se si dovessero riassumere in poche parole i problemi del servizio idrico integrato in Italia, da cosa dovremmo partire?
Dalla responsabilità che abbiamo nei confronti delle future generazioni. Il nostro livello di civiltà ci imporrebbe di avere rispetto dell’ambiente e di valutare gli effetti dei nostri errori.
Invece si parla di acqua con un approccio idealistico e si continua, come se le due cose non fossero in relazione, a “consumare” il territorio, a non investire nel settore della depurazione e delle perdite idriche, in un’altalena di norme e regole contrarie ad ogni seria pianificazione.
Abbiamo una delle leggi più avanzate per la gestione del ciclo idrico, ma senza risorse e con la costante sovrapposizione dei soggetti attuatori.
Quali le priorità?
Il tema dell’acqua è universale e lo deve essere anche l’approccio. È necessario investire almeno 65 miliardi in 30 anni, se vogliamo raggiungere gli standard qualitativi dei Paesi evoluti, ma ancora di più occorre pensare all’assetto idrogeologico dell’Italia. Ormai passiamo dalle alluvioni alla siccità, senza soluzione di continuità e non sappiamo ancora chi deve gestire la materia. L’estate scorsa sette regioni hanno lanciato l’allarme siccità. E non è il primo anno. Le aziende di servizi pubblici sono pronte ad aiutare, ma bisogna capire chi è titolare dell’attività e con quali risorse operare, specie in materia di dissesto idrogeologico.
Solo di danni da frane, alluvioni e valanghe, l’Italia ha pagato un tributo di 69,5 miliardi di euro dal 1962 al 2011. Per non parlare dei danni in perdite umane e feriti. Il 10% del territorio italiano è a rischio idrogeologico! Il 4,1% è soggetto ad alluvioni, mentre il 5,7% a frane e valanghe. E noi ci concentriamo invece, da decenni, sulle polemiche pubblico-privato, sugli aumenti centesimali delle tariffe e sulle beghe territoriali.
Allora parliamo proprio di questo: dibattito pubblico privato, tariffe… e tutto quello che finisce sulle pagine dei giornali.
La collaborazione pubblico-privato per i servizi pubblici, in Italia appare ancora un tabù. Non è un caso però, visto che è anche un Paese in cui si confondono spesso i termini liberalizzazione e privatizzazione.
La situazione sarebbe semplice: negli anni novanta, a fronte di aziende municipalizzate indebitate e criticate per i loro legami con la politica, si fecero leggi per inserire un po’ di regole privatistiche con l’idea di aumentarne l’efficienza. Nello stesso tempo si diede impulso (erano gli anni della legge Galli) ad aggregazioni extracomunali per aumentare le dimensioni non solo economiche di questi soggetti industriali.
Successivamente qualche governo ha spinto verso le liberalizzazioni e qualche altro di più sulle privatizzazioni. Nel caso dell’acqua la spinta alla privatizzazione ha portato ad un referendum (che riguardava anche il trasporto ed i rifiuti, ma nessuno lo ricorda) che ha contrastato questa spinta. Ma se era giusto, e questa è stata la posizione della federazione, cancellare una norma che eliminava l’autonomia degli enti locali nella scelta della gestione rispetto ai modelli comunitari, appare velleitaria una norma che cancella una delle leve per finanziare gli investimenti senza indicare modalità di finanziamento alternativo.
In che senso velleitaria?
Abbiamo le tariffe più basse d’Europa e quasi del mondo. Contemporaneamente diciamo che dobbiamo fare investimenti imponenti, non vogliamo pagare multe per le inadempienze in materia di depurazione, vogliamo ridurre le perdite di acqua potabile e non vogliamo inquinare l’ambiente.
In un Paese normale questo condurrebbe alla scelta politica di allineare un po’ le nostre tariffe a quelle europee – che sono da quattro a sei volte maggiori delle nostre – per accumulare risorse da investire, visto che lo Stato non ha i soldi per farlo.
Invece che succede? Che si urla allo “scandalo” perché si potrebbe guadagnare sul capitale investito. Capitale investito in acquedotti, in sistemi fognari e depurativi per non inquinare le falde ed evitare che i nostri figli debbano far affidamento sui dissalotori con i loro costi impossibili.
Cosa pensa del parere del Consiglio di Stato in materia tariffaria post referendum?
Non mi sembra che meritasse i titoli dei giornali visti in questi giorni. Si tratta di un parere formulato a seguito di una richiesta dell’Autorità dell’energia, in ordine ai propri poteri anche con riferimento al periodo precedente l’assegnazione delle competenze per il settore idrico. Un quesito di competenza su sei mesi di tempo.
Il Consiglio di Stato ha detto, in pratica, quello che noi sostenevamo da tempo ed in particolare che la competenza è dell’Autorità e che la remunerazione deve essere sostituita da un riconoscimento dei costi, inclusi quelli finanziari.
Che significa? Che in pratica l’azienda dovrà fare un conguaglio in bolletta e restituire cifre non significative, specie se confrontate con i conguagli che molti gestori attendono per le inadempienze delle rispettive Autorità d’ambito. Insomma, da lettore non mi sembrerebbe una notizia da prima pagina del Corriere della Sera e invece…
Come vedete l’entrata in campo dell’Autorità dell’ energia elettrica ed il gas, come regolatore del sistema idrico?
Molto bene. Lo chiedevamo da anni! Forse siamo l’unico caso in cui i controllati dichiaravano apertamente di volere un controllore. Oltretutto, il fatto che sia la stessa autorità che già regola energia elettrica e gas sembra un approccio razionale e di buon senso.
Da adesso in poi, come operatori tenuti sotto controllo da un arbitro indipendente, possiamo giocare una partita con regole predefinite. Ci potranno essere pareri discordi e anche qualche tensione, ma almeno c’è un tentativo di dare regole stabili. La prima partita è quella del metodo tariffario, che dovrebbe finalmente creare un approccio omogeneo, con un periodo transitorio di due anni e, auspichiamo, in grado di attrarre risorse per gli investimenti.
Nuovo metodo tariffario significa aumento delle bollette?
Significa principalmente un approccio razionale, in cui i costi di gestione e gli investimenti vengono misurati con la matematica e la competenza tecnica, anziché con la demagogia o con l’indifferenza.
L’Europa è chiara: l’acqua deve essere gestita secondo i principi del “full cost recovery” e del “polluter pays”, ovvero la tariffa deve essere calcolata per garantire la copertura dei costi di gestione e per far pagare di più chi inquina l’ambiente. Costi naturalmente efficienti, inclusi quelli finanziari. Prendere risorse finanziarie solo a debito non è sicuramente un meccanismo efficiente.
Era chiara anche la legge Galli quando nel 1994 prevedeva un metodo tariffario normalizzato (poi varato nel 1996) che di fatto non è mai stato applicato.
Per il settore idrico che un’Autorità abbia il compito di fissare, far applicare e sanzionare chi non lo rispetta, un metodo tariffario unico è l’avvio di un processo che potrebbe ridare fiducia anche al sistema finanziario, troppo spaventato per concedere mutui e sostenere opere idriche.
Perché questo sistema tariffario dovrebbe riuscire dove non è riuscito il precedente?
Perché l’autorità ha anche potere sanzionatori e competenze di controllo. Non significa che filerà tutto liscio. Purtroppo l’Italia dell’acqua non è uniforme ed omogenea come quella dell’energia. Ci sono aziende con affidamenti diversi e ambiti che hanno accumulando ritardi negli investimenti per non perdere consensi con l’aumento delle tariffe. Non è neanche da escludere, purtroppo, che si possano innescare contenziosi legali. Come associazione faremo di tutto per evitarli, perché ogni ulteriore ritardo applicativo del metodo comporterà ritardi negli investimenti. Il primo vero bilancio potremo vederlo, forse, dopo un anno di esercizio. In ogni caso qualsiasi metodo verrà adottato in modo transitorio o definitivo, risulterà fallimentare se non accompagnato, da una garanzia per i finanziamenti necessari agli investimenti. Al settore idrico, per recuperare i ritardi, serve una prima fase di avvio con almeno 5 miliardi all’anno, per scendere a 2,5 quando si giungerà a regime.
E per le competenze sul territorio, che effetto ha l’abolizione degli Ambiti territoriali ottimali?
Se ne parlava da tempo e il termine ultimo era stato spostato da due decreti milleproroghe. Direi che, anche qui, finalmente c’è un timido passo avanti. Ora si tratta di vedere come le regioni completeranno la legislazione sulla materia e quale forma sceglieranno per la gestione del territorio.
La questione non è da poco, ad esempio per la depurazione. Sul tema depurazione, che vede l’Italia sotto scacco per via di una condanna dell’Unione europea, molti degli interventi dipendono, come detto, anche dal nuovo sistema tariffario.
In Italia, nelle regioni, sono stati adottati modelli diversi e non tutte le allocazioni di risorse vengono effettuate con la stessa efficacia. Per la depurazione gli elementi fondamentali sono la progettazione, il finanziamento delle opere e i tempi della loro realizzazione.
Ma in pratica il mondo dei servizi pubblici è economicamente in pericolo?
Non del tutto. L’acqua è il settore più a rischio, insieme a quello dei rifiuti, per i motivi che abbiamo visto, ma – come ha riconosciuto l’Antitrust nella sua relazione annuale – i servizi pubblici continuano a svolgere una funzione anticiclica e di sviluppo.
Alla fine del 2012 abbiamo promosso una ricerca sulle cento migliori aziende, analizzate da Althesys per il Top Utility Award ed i numeri sono stati incoraggianti, oltre le nostre aspettative. Solo le prime cento hanno un fatturato complessivo di 111 miliardi di euro, impiegano 130.000 dipendenti e investono 2,7 miliardi in tecnologia e innovazione. Non sono molti i settori che possono vantare questo contributo allo sviluppo e soprattutto con un’attenzione alle tematiche di efficienza energetica e tutela ambientale. Sono le istituzioni ora a dover supportare i processi, se non vogliono disperdere questo patrimonio di competenze e di gestione del territorio.