“Senza il giusto coordinamento da parte della politica c’è il rischio che la decarbonizzazione sia contraria alla competitività e alla crescita”. Questa è una delle premesse su cui, secondo Mario Draghi, deve basarsi la strategia industriale dell’Unione, con l’obiettivo di realizzare piano comune per la decarbonizzazione e la competitività, che permetta di innovare nel campo delle tecnologie pulite, scrollandosi di dosso pericolose dipendenze da altri Paesi.
Il documento stilato dall’ex presidente della Bce sul futuro della competitività europea è difficile da accettare dai policy makers di Bruxelles, dal momento che evidenzia la lentezza dell’Unione rispetto ai big dell’economia mondiale, Stati Uniti e Cina su tutti. Ribadisce, tuttavia, che dalla transizione verde, intrapresa in questi anni, non è opportuno tornare indietro, anzi, è una strada da portare avanti fino in fondo, correggendo quel che si può affinché gli obiettivi ambientali affossino un’industria a cui serve ridare vigore.
Le ragioni dell’impasse
Le motivazioni sociopolitiche che hanno messo in discussione la sicurezza energetica dell’Unione non sono un mistero. La guerra in Ucraina e il congelamento dei rapporti con Mosca hanno fatto venire meno una fonte di energia relativamente a buon mercato, con un costo enorme per l’Europa, che ha dovuto reindirizzare ingenti risorse fiscali verso i sussidi energetici e la costruzione di nuove infrastrutture per l’importazione di gas naturale liquefatto. Ciò ha inciso sulla crescita potenziale in Europa, rendendo le imprese meno propense agli investimenti. La produzione delle industrie ad alta intensità energetica è calata del 10-15% dal 2021 e sono aumentate le importazioni da Paesi con costi energetici inferiori.
A ciò si aggiunge il fatto che gli obiettivi di decarbonizzazione dell’Ue sono più ambiziosi di quelli dei suoi concorrenti. Mentre Bruxelles ha adottato una legislazione vincolante per ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, gli Stati Uniti hanno fissato un obiettivo non vincolante di riduzione del 50-52% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030, e addirittura la Cina punta solo a raggiungere il picco delle emissioni di carbonio entro la fine del decennio. “Queste differenze – afferma Draghi – creano per le imprese dell’UE un’enorme necessità di investimenti a breve termine che i loro concorrenti non devono affrontare”.
La soluzione è nelle clean-tech
La strada indicata dal rapporto è quelle della massiccia diffusione di fonti energetiche pulite con bassi costi marginali di generazione, come le energie rinnovabili e il nucleare. Non si parte da zero, perché il ricorso alle fonti di energia pulite in Europa è già in crescita, dal momento che ha raggiunto il 22% del consumo finale lordo di energia dell’UE nel 2023, rispetto al 14% della Cina e al 9% degli Stati Uniti. È necessario, però, snellire i processi burocratici e autorizzativi per a favorire l’accesso alle fonti rinnovabili, la realizzazione di infrastrutture di flessibilità e delle reti, il rafforzamento dell’integrazione dei sistemi, il miglioramento dei sistemi di stoccaggio e la flessibilità della domanda per tenere sotto controllo i costi totali del sistema. Parallelamente è auspicabile investire nello sviluppo del “nuovo nucleare” e promuovere il ruolo delle tecnologie di cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio. In generale, bisogna intensificare l’attività di ricerca e innovazione nel settore energetico, dando vita ad una governance necessaria per una vera Unione dell’energia.